LA SINDROME DEL BILANCIERE
- L'Aculeo
- 10 ott 2021
- Tempo di lettura: 2 min
In economia aziendale si definisce bilancio d'esercizio "l'insieme dei documenti contabili che un'impresa deve redigere periodicamente, ai sensi di legge, allo scopo di perseguire il principio di verità ed accertare in modo chiaro, veritiero e corretto la propria situazione patrimoniale e finanziaria, al termine del periodo amministrativo di riferimento, nonché il risultato economico dell'esercizio stesso".
Almeno così dice Wikipedia ed io, che di economia aziendale non so nulla, me lo faccio bastare. Però, se ci pensiamo bene, fare un bilancio d'esercizio sembra essere molto più familiare di quanto si possa pensare.

Accade spesso che la nostra quotidianità venga interrotta da quel fatidico momento del bilancio, quell’angolo di tempo che ci ritagliamo per fare un po’ i conti con noi stessi e con tutto quello che ci circonda. Inizia così un’attenta indagine per così dire di mercato, dove troviamo in rosso ciò che abbiamo perso ed in verde ciò che abbiamo acquisito; ci sono i debiti, i crediti, i prestiti, qualche spesa superflua e qualcuna necessaria ma abbastanza costosa, qualche offerta dell’ultimo minuto ed, infine, una cifra tonda che ci guarda con fare minaccioso. Il numero dei nostri fallimenti e dei nostri successi campeggia in alto a destra sulla homepage della banca dove abbiamo deciso di depositare i nostri averi. E, come se fossimo un’azienda, ci ritroviamo a dover “redigere periodicamente” le nostre scelte allo scopo di “perseguire il principio di verità”, allo scopo di essere sinceri con noi stessi e con chi ci è accanto. Ma siamo davvero in grado di dare il giusto peso alle cose?
A quanto pare siamo tutti affetti dalla sindrome del bilanciere, quello stato d'animo che ci porta a chiederci se abbiamo un approccio pesante o superficiale nei confronti della vita.

Ci troviamo spesso a fare i conti con le scelte prese, con quelle che avremmo potuto prendere, a tirare le somme dopo aver portato a termine un progetto, a capire quanto ne abbiamo guadagnato e se ne sia valsa la pena. Cosa che sembra delineare un atteggiamento consapevole e maturo.
E se invece, così facendo, perdessimo il vero valore della cose? L'impressione che ho, ultimamente, dall'osservazione della società odierna è che si ponga un'attenzione maggiore sul risultato piuttosto che sul percorso che conduce alla realizzazione di un obiettivo.
Ci occupiamo di arrivare in tempo, prima di chiunque altro, di ottenere ciò che il sistema sembra imporci, cercando di rispettare al massimo qualsiasi consuetudine sociale che ci tuteli e non ci faccia sentire in difetto rispetto a chi può essere migliore di noi. Ma alla fine della fiera, cosa ne otteniamo?
Ne usciamo stremati, spesso di fronte all'ennesimo successo sterile non riusciamo neanche a riconoscerne il valore. Perché? Perché abbiamo perso la misura del fallimento e di conseguenza del successo.

Se sul piatto della nostra personale bilancia riuscissimo a dare lo stesso peso ai fallimenti così come ai successi otterremmo due effetti straordinari: da un lato saremmo in grado di complimentarci con noi stessi quando meritato, dall'altro saremmo capaci di accettare il dolore, di affrontare la delusione, realizzando che non esiste successo senza fallimento e viceversa, tenendo sempre a mente, infine, che nella lunga strada che percorriamo, se puntiamo lo sguardo in maniera fissa sull'obiettivo ci perdiamo tutto quello che c'è attorno... e non è forse un peccato?
Manuela
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